sabato 12 marzo 2011

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Sindrome di Klinefelter

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venerdì 19 febbraio 2010

Moderne Prospettive Di Diagnostica Liquorale Ii: Spettrofotometria

Anno 1977
Rif. Biblio. Riv. Neurobiol Vol Xxiii: ( Vol. Vi - Fasc. 1/2) Gennaio - Giugno 1977
Titolo Moderne Prospettive Di Diagnostica Liquorale Ii: Spettrofotometria
Titolo in inglese
Osp. / Clinica
Riassunto Viene discussa l'origine, il tipo, il significato clinico ed il pattern spettrofotometrico dei pigmenti liquorali. Dai dati presentati si conferma l'importanza dell'esame spettrofotometrico della xantocromia liquorale, nella diagnostica neurologica.
Riassunto in inglese
Parole chiave
Autori PAOLO LIVREA, CLAUDIO NEGRO, MICHELE LORETO, e ISABELLA L. SIMONE

domenica 7 febbraio 2010

Intervista a Nico Casagrande: Basaglia gli anni di Gorizia…….

A cura di Francesco Bollorino e Lisa Attolini.



Il "periodo" di Basaglia a Gorizia secondo noi rappresenta veramente un momento rivoluzionario per la psichiatria mondiale.

Ci interesserebbe sapere innanzitutto come Franco Basaglia è arrivato a Gorizia?

Franco era nell’università di Padova, una delle più potenti scuole neuropsichiatriche, perché allora non c’era la psichiatria separata dalla neurologia, infatti io stesso sono specialista delle malattie nervose e mentali.

A Padova ci si specializzava in neuropsichiatria. Franco si era sempre più occupato della parte psichiatrica più che di quella neurologica ed era uno dei più giovani della covata e come tu sai, l’università aveva delle regole ben precise, si andava in cattedra non per meriti scientifici ma per tutta una serie di altri motivi: se eri il più anziano, se eri quello di una certa parte, ecc. A Franco essendo uno dei più giovani, fu detto che difficilmente sarebbe arrivato in cattedra e che quindi gli conveniva andare a fare il direttore di ospedale psichiatrico. Fu così che nacque la scelta di direttore a Gorizia. Certo non credo che facesse molto piacere allora a Franco anche perché era uno studioso, era un fenomenologo, era stato quello che aveva portato la fenomenologia in Italia anche con articoli originali.

Quindi lui avrebbe continuato la ricerca, ma si trovò improvvisamente sbattuto in questa realtà del manicomio.

Io credo sia molto importante in questo l’esperienza personale di Franco, cioè Franco durante il periodo finale della guerra è stato messo in carcere a Venezia perché giovane socialista e aveva rischiato di essere fucilato, fu invece salvato. Però aveva fatto questo periodo di carcere alle spalle e quando è capitato nell’ospedale psichiatrico ha constatato che il manicomio era molto simile al carcere, non c’era nessuna differenza tra il carcere ed il manicomio allora ha cominciato ha farsi delle domande del tipo: " Cosa ci faccio qui?" ovvero ciò che viene ovvio pensare ad una persona sbattuta dal mondo universitario in un mondo clinico, in un mondo diverso, in una realtà così tragica. Bisogna inoltre tenere conto di una cosa di cui probabilmente non si tiene mai conto, ovvero che negli anni sessanta la realtà psichiatrica italiana era molto arretrata, c’era il manicomio da un lato e la clinica psichiatrica dall’altro, non c’era nient’altro in mezzo.

Io ricordo che ero alla clinica di Bologna e ricordo che avevamo il cortile del nostro reparto che confinava con l’ospedale psichiatrico. Noi sentivamo le persone urlare, pensavamo ad un mondo diverso ed invece erano le stesse persone che venivano ricoverate in clinica: quando andava bene tornavano a casa ma spesso andavano dall’altra parte del cortile. Non c’era situazione intermedia: Basaglia cominciò a pensare che o doveva venirne via o doveva cambiare quel mondo perché quel mondo non era la modalità terapeutica che poteva dare una risposta al malato, era una cosa diversa e la sua esperienza in carcere gli aveva fatto capire in che condizione erano queste persone, cosa potevano vivere queste persone nel mondo concentrazionario. Quindi il primo impatto è stato quello col mondo concentrazionario, cioè il manicomio come mondo concentrazionario.

Oggi a noi sembra ovvio tutto quello che c’è nell’assistenza psichiatrica, ovvio che ci sia il territorio, ovvio che ci sia l’SPDC, ovvio che ci siano le comunità, ci sembra normale, non viene neanche in mente che ci possa essere qualcosa di diverso. Franco si è trovato di fronte a due ovvietà: la prima ovvietà era quella che lui ha colto che gli sembrava ovvio che l’istituzione non funzionasse così come era perché era entrata in crisi anche per colpa degli psicofarmaci, ho l’impressione. L’altra ovvietà era che il mondo intorno a lui pensava che i manicomi avrebbero dovuto esserci per sempre. Vogliamo incominciare un po’ da qui…...





Se vogliamo parlare di ovvietà, la prima ovvietà trasformare questo mondo concentrazionario, questa istituzione totale, questo carcere in ospedale. Questo è stato un passaggio ovvio di Franco Basaglia, cercare di dare una funzione, la sua vera funzione, quindi il primo passaggio l’umanizzazione di questa situazione. Ecco questo è stato il primo passaggio.









Quale è stato l’impatto interno di questa ovvietà, da parte del personale, prima ancora che dei ricoverati, lui ha trovato terreno fertile, una disponibilità oppure no? Ha dovuto combattere perché molti erano abituati a vivere in un certo modo l’istituzione e parlo del personale?

Ecco se io devo dire quale è stato il mio impatto su questo anche se è stato successivo, qualche anno dopo, però dava conto di chi c’era prima, bisogna dire che Franco è arrivato lì insieme ad Antonio Slavich come suo assistente giovane con l’aura di professore universitario quindi ben accettato e diciamo che l’impatto iniziale è stato di grande aspettativa ma di aspettativa di mantenimento della situazione: il luminare che arriva, giovane e di buone speranze con già un nome alle spalle.

So che allora c’era anche un assessore bravo che lo sosteneva che aveva capito un po’ le sue idee di rinnovamento che però poi è morto. Poi quando lui ha cominciato la sua azione ha cominciato ad avere le sue resistenze all’interno quando io sono arrivato le resistenze c’erano e c’erano eccome. Probabilmente erano maggiori nel periodo in cui siamo arrivati io, Pirella e Gervis; c’erano proprio due fronti: da un lato persone che avevano cominciato ad aver fiducia in Franco Basaglia come persona che avrebbe portato qualcosa di nuovo di interessante, di scientifico, di importante per cui ad esempio ricordo il caposala che quando veniva qualcuno a visitare l’ospedale e gli chiedevano cosa pensava di Franco diceva: "Sa noi non sappiamo dove vuole arrivare però lui lo sa!". Cioè non capivano bene la sperimentazione che c’era, lo vivevano come una persona che aveva un piano ben preciso e sapeva dove stava andando senza saper che il cambiamento che avveniva nell’ospedale psichiatrico non si sapeva dove potesse arrivare, perché non c’era nessuna esperienza tale che ci potesse predire il risultato. C’erano quelli che invece vivevano questa esperienza in modo molto intenso anche dal punto di vista politico e quindi aggregandosi a favore di questa esperienza e andando avanti fino a quando sono stato direttore io.

Pian piano si era organizzata anche la frangia contraria; i primi anni c’era un po’ questo disorientamento: da un lato l’uomo nuovo che arriva, senza sapere dove si poteva andare.

Quando io sono arrivato iniziava un discorso diverso: il momento dell’umanizzazione cioè il cominciare a dare delle risposte diverse, ad adoperare gli psicofarmaci in modo diverso, a diminuire l’intervento con l’elettroschok terapia: L’elettroschok terapia a Gorizia si è continuata a fare fino abbastanza avanti anche se man mano che noi in qualche modo conquistavamo i reparti, se così si può dire, si terminava con tale terapia. Certo c’erano anche dei medici tradizionali che continuavano a fare l’elettroschok e ad adoperare dei metodi costrittivi. Quando sono arrivato io però in Italia i metodi costrittivi erano praticamente terminati, ma l’elettroschok era ancora praticato: certo veniva fatto in un certo modo mentre prima venivano utilizzati dei metodi un po’ artigianali, comunque veniva fatto.

L’altro elemento erano gli ospiti. Che impatto ha avuto questa umanizzazione nei confronti dei ricoverati? Quale è stato l’impatto sugli ospiti, di questo arrivo e di questi cambiamenti?

Direi che gli ospiti sono stati molto più accettanti di quanto può essere stato forse il personale, ci sono stati dei problemi perché quando io sono arrivato c’erano ancora dei reparti chiusi. Agostino Pirella era in un reparto chiuso che era il più difficile in cui era concentrato un po’ di tutto poi ha aperto anche quello. Però direi che i pazienti amavano Basaglia.

Alcuni episodi siano stati episodi importanti: C’era un certo C. che era nel reparto dove c’era Slavich che era considerato il peggiore paziente perché aveva una forza non indifferente: se lo chiudevano in un bagno lui sradicava il lavandino, era uno di cui tutti avevano paura. Poi ha cominciato a essere liberato e è diventato una persona gentile, una specie di vecchio saggio; questi sono stati episodi molto importanti anche per gli altri ricoverati. Se devo dire nel corso del tempo c’erano i maniacali che erano i più difficili perché erano coloro che tendevano a "mangiare lo spazio" in tempi e in modi così intensi che "mangiavano" anche il personale nel senso che per non recludere le persone c’era bisogno di avere persone; c’era bisogno di avere delle persone vicino e questi cercavano sempre di alzare il prezzo della loro richiesta stancando il personale.

Ecco un’altra situazione significativa: una persona mandata in manicomio criminale, a un certo punto facciamo la riunione con Pirella e con gli infermieri che dicevano: "Non ce la facciamo più, questo ha fatto delle cose, che le sconti come è giusto che faccia", allora è andato in manicomio criminale poi dopo sei mesi è tornato e quando è tornato la prima cosa che ha fatto è ringraziarci perché solo stando in manicomio criminale aveva capito quali sforzi avevamo fatto noi per lui ed è diventata una persona diversa. Dico di questi due casi perché se ancora oggi si parla con gli operatori di Gorizia, li ricordano tutti. I pazienti sono quelli che hanno reagito meglio di tutti che hanno capito meglio di tutti, proprio questo S. una volta in una riunione disse: "Basaglia ha infilato le chiavi nella porta, noi le abbiamo girate". Ecco come veniva vissuto Franco Basaglia che non era il papà buono diciamo, non era il liberatore, era la persona che aveva dato l’opportunità.

Dicevamo che oggi i giovani, ma spesso la gente comune non sa cosa era il manicomio e non sa nemmeno cosa era successo in un epoca tra l’altro in cui si agiva in barba alla legge, perché voi agivate nelle pieghe della legge italiana che vi permetteva di fare certe cose perché era una legge vecchia ma non era poi tanto malaccio rispetto al resto del mondo. Ecco vediamo un attimo questi passi: parlavamo di rivoluzione quali sono stati i passi topici di questa rivoluzione goriziana.

Il primo passo è stato l’umanizzazione, quindi all’interno del manicomio era cambiare i rapporti umani o se vogliamo il potere dal potere medico; Franco lo scrive in un articolo del 64: si passa ad un rapporto più comunitario, più paritario: siamo insieme abbiamo un problema comune da risolvere, naturalmente uno è medico , l’altro paziente e su questo non credo ci fossero dubbi. Questa è una fase che però è ancora prima di quello che sarebbe il dire che la porta ha una serratura ma poi il passaggio successivo sarebbe quello di mettere la chiave dentro e insieme girare e aprire.

Ecco quali sono stati i momenti importanti?

Allora due cose, primo mi rifarei un attimo alla legge, la legge era una legge abbastanza precisa, parlava di cura e custodia; allora il manicomio era la rappresentazione della custodia non della cura ma della custodia intesa in un certo modo e questo allora è stato il primo passo: l’umanizzazione ha dovuto agire all’interno di questa contraddizione cioè riportare l’ospedale alla cura e interpretare diversamente la custodia; custodia non vuol dire che io per custodire una persona devo chiuderlo dentro; per custodire una persona mi devo prendere cura di lui, anziché chiuderlo gli metto una persona vicino. L’umanizzazione è stata questa: rivalutare la cura e interpretare diversamente la custodia custodia come prendersi cura e non come reprimere. Questo direi che è stato il momento cruciale che ha portato a cosa, all’abbattimento delle mura dei cortili quindi alla liberazione all’interno dell’ospedale delle persone.

Che non stavano più chiuse nei reparti e potevano muoversi

Il primo muro di cinta che è stato abbattuto…ricordo che, abbattuto questo muro, c’era un paziente che continuava a girare per il cortile non andando oltre il muro abbattuto finché piano piano ha incominciato a mettere un piede dall’altra parte e a guardarsi attorno ma non nella stessa giornata, in giornate successive finché ad un certo punto ha visto che andando al di là non succedeva niente e ha cominciato ad andare: è la riconquista della libertà però non può bastare, l’abbattimento del muro è un momento importante, è un simbolo che tutti colgono e la persona ricomincia a riconquistare il proprio spazio insieme ad altre cose.

Noi abbiamo dato dei tavolini per porre le proprie cose, degli armadietti, abbiamo imbandito le tavole, dato i coltelli, cioè tutti passaggi che sono stati importanti per l’umanizzazione, che sono stati il recupero dello spazio e del tempo della persona quindi direi un momento fondamentale, quindi umanizzazione ha voluto dire questo riconquista di uno spazio e di un tempo perduto. Quindi avviene la necessità di un secondo movimento cioè come gestire questa situazione: sono incominciate le riunioni di reparto, le prime furono quelle del reparto di Slavich, sono incominciate per discutere su cosa fare durante la giornata, su come si mangiava, su come tener pulito…

Queste persone che hanno continuato a tacere per vent’anni come si sono trovate nel momento in cui hanno avuto questa possibilità?

Parlando di cose così concrete le persone parlavano, hanno cominciato a occuparsi di queste cose: se si mangiava male a protestare e non solo… Pian piano si costruivano dei gruppi con dei leader, pian piano si proponevano e direi che pian piano è sorta una dinamica abbastanza simile. I primi a venir fuori erano le personalità psicopatiche erano quelli che si ponevano come leader che poi distruggevano loro stessi la leadership e poi venivano fuori gli psicotici, a distanza venivano fuori loro come vere persone. Era abbastanza particolare come tipo di situazione e direi che questo è stato un momento molto importante perché ha fatto partecipare della vita dell’ospedale molte persone, cioè allora si è dato un po’ gambe a quello che era uno slogan. Viviamo tutti sullo stesso piano, siamo tutti uguali, viviamo tutti sullo stesso piano pur nella diversità dei ruoli, cerchiamo di far scomparire queste situazioni di disuguaglianza almeno all’interno della situazione, logicamente nell’ambito sociale bisogna tacere, cercando di cogestire la situazione. Allora viene messa in crisi la figura dell’infermiere, qui cominciano le grosse resistenze: " Voi tenete più conto del paziente e non dei nostri problemi", data la situazione bisogna dire che noi siamo qui per i pazienti. È facile dirlo oggi, ma in passato questo ha portato non solo discussioni, sindacati… oggi è una cosa normale ma non lo poteva essere in quei tempi, non avevamo esempi. Direi quindi che il momento delle assemblee di reparto è stato un momento molto importante che ci ha posto di fronte ad un problema: il problema psicoanalisi si o no.

Leggiamo queste dinamiche attraverso una lettura psicodinamica solo? ma nessuno di noi era psicoanalista, oppure anche noi cresciamo insieme a questa esperienza? E questa è stata la nostra scelta, la diversità…

In quel periodo io e Pirella facevamo dei gruppi, li facevamo insieme perché nessuno dei due era analista e scoprivamo un po’ le cose che trovava Laing dall’altra parte. Però con delle diversità, cioè avevamo visto che il fantasma persecutorio che descriveva Laing, nel momento in cui noi avevamo aperto il reparto scompariva, allora ci siamo resi conto che eravamo noi i persecutori, non erano fantasmi era la realtà, aperto il reparto non c’era più il fantasma persecutorio.

Noi continuiamo a tener conto del momento psicodinamico ma anche del metro sociale, sociale e politico: il fatto di domandarsi chi siamo, quale compito abbiamo, la psichiatria cos’è, noi psichiatri siamo dei medici, dei curatori o siamo delle persone che anche recludono, opprimono? La psichiatria è una scienza medica, una scienza che cerca di spiegare la malattia oppure è una scienza del controllo? Queste sono le domande che venivano fuori pian piano e noi abbiamo dato la nostra risposta fino a dire: " Basta l’ospedale deve essere chiuso" però a quel punto lì non è più Gorizia ma diventa Trieste. Direi che Gorizia è il momento che ci impone queste domande e ci dà queste risposte. A un certo punto a Gorizia scopriamo che la comunità terapeutica non ci basta nel senso che la comunità terapeutica rischia di far diventare il manicomio un bel manicomio ma riperpetuare la necessità del manicomio, cioè un posto buono dove stare. L’umanizzazione, la compartecipazione e quindi la comunità terapeutica, la scoperta che l’ospedale comunque è un luogo di malattia e non di cura, è un luogo di oppressione, di allontanamento e allora la malattia deve essere riportata nel suo luogo naturale, dove nasce.

In realtà a Gorizia Franco fa la rivoluzione, immagina giustamente di riportare il malato nel luogo dove vive, un principio che per noi è normale, ma…



Non era per nulla normale allora

Ecco ma tra la gente fuori, e mi riferisco ai famigliari, al milieu sociale di Gorizia e a i politici, questa rivoluzione che voi stavate facendo dentro con la voglia di portarla fuori, di andare oltre, che effetto ha fatto? Che reazioni ci sono state?

Direi che per quanto riguarda i familiari è stato anche in questo caso un processo che si è messo in moto, logicamente i familiari i primi tempi erano contrari. Però non bisogna vedere questo non come un "adesso tutti fuori". No, si è cominciato un rapporto con l’esterno molto forte con partecipazioni all’interno…

Prima voi avete fatto entrare la società dentro?

Sono stati anni molto belli e molto pesanti, belli perché eravamo in contatto con molte persone, a Gorizia sono venuti anche personaggi importanti , Facchinelli ad es. mi ricordo che dopo aver partecipato ad una riunione di reparto disse a me e ad Agostino Pirella "Qui fate un trattamento psicoanalitico perfetto":

Anche nella quotidianità avevamo stabilito un po’ di attività diverse, cioè quando visitavamo le persone, facevamo visite domiciliari, continuavamo a seguire gente all’esterno, facevamo igiene mentale nel senso che aprivamo l’ambulatorio all’interno dell’ospedale per vedere le persone.

In questo senso c’era una quotidianità di rapporti col territorio, avevamo preso contatti anche con sindaci, per chiedere se si potevano aprire all’esterno dei centri di salute mentale e qui comincia la vera resistenza, grossa resistenza politica, mentre sugli altri piani vi fù più dialettica.



Eravate una dannata cricca di comunisti.

Questa situazione di Gorizia è sempre andata di pari passo, si è sempre incontrata con i movimenti sociali in qualche modo ma non perché Gorizia voleva essere così ma perché quello che andavamo proponendo andando avanti si sposava per forza con lo spirito del tempo. Perché Gorizia nasce negli anni 60 perché negli anni 60 c’è una modifica totale del mondo italiano si passa da un mondo agricolo ad un mondo industriale, non si può più permettere la società italiana di avere i manicomi, parliamoci chiaro. Franco diventa l’interprete di quel momento. Franco è uomo del suo tempo non è fuori dal tempo e interpreta perfettamente il suo tempo. Se si volesse essere gramsciani è organico al suo tempo.

Quando noi diciamo vogliamo portare il malato di mente là dove nasce la sua malattia, la dove nasce la sua situazione, là dove lui è radicato.. sono gli stessi anni in cui i sindacati cominciano a dire vogliamo curare la malattia nel territorio, cioè sono gli stessi concetti ma non è che ci siamo messi d’accordo: questa stupidità di pensare da parte della destra che la sinistra si voglia mettere d’accordo è una polemica che sorge anche in questi giorni…molti di noi non erano mica comunisti, Slavich leggeva il Corriere della Sera, il Corriere della Sera di allora.

E’ interessante notare che Basaglia non ce ne sono più lui è stato un leader, cioè il ragionamento è molte persone hanno avuto delle buone idee ma spesso sono morte con loro e non hanno avuto se non dopo molto tempo riconoscimento postumo. Il caso di Basaglia è invece il caso di un leader che ha modificato, è riuscito a modificare alla fine una realtà a livello nazionale partendo da un piccolo posto.

All’inizio vi sentivate soli e che ruolo ha avuto il suo carisma? Per uscire da Gorizia e far diventare questo un fenomeno più grande?

Sembra semplice però è complessa perché pone in campo numerose questioni, allora cerchiamo di vederle un momentino.

Il mondo esterno, il mondo politico, era contrario logicamente perché la rivoluzione basagliana mette in discussione delle dinamiche consolidate: cioè chi sono queste persone? Perché queste persone devono star fuori dal mondo? Perché il mondo non le vuole? E se queste persone mostrano anche di poter vivere nel mondo cosa è che portano con loro che sconvolge tanto? Al di là che possa esserci più o meno lo schizzococco? Anzi magari ci fosse lo schizzococco così risolviamo il problema…. invece è per loro comportamento che non sono accettati perchè mettono in discussione il sistema di potere costituito che non vuole essere messo in discussione da qualsiasi parte lo si veda.

Questo è lo sconvolgimento che porta Gorizia in sè e lo porta su tutti i piani: mondo politico ma anche mondo universitario: riconoscono Franco ma non quello che Franco fa perché sono due cose diverse infatti ad un certo punto gli si offre la cattedra psichiatrica a Pavia, ma senza letti in modo che lui parli ma che il suo parlare sia ideologico senza riflesso pratico perché si capisce che la forza di Franco Basaglia non è solamente quella di un teorico ma quella di una persona che agisce la cui forza è l’utopia non l’ideologia, intendendo per ideologia quell’insieme di situazioni che cercano di coprire la realtà e l’utopia quella che smuove la realtà, che smuove in qualche modo le situazioni, in questo senso Basaglia dà fastidio.

Non è casuale che oggi i giovani specialisti in psichiatria non sappiano nulla di Gorizia se non parole al vento che "la malattia mentale non esiste" cosa non vera ecc. e non capiscono invece che c’è stata una profonda rivoluzione del cercare di capire in modo diverso il malato e la malattia.

Partendo dal malato e non dalla malattia perché partendo dal malato tu scopri una contraddizione con cui ti devi confrontare se hai la malattia ti confronti con niente, non ti metti in discussione metti in discussione solamente l’altro anzi cerchi di costringere l’altro in un angolo che è quello dell’etichetta che tu gli dai dentro la quale lui deve stare.

Questa è la situazione che ha messo in discussione la psichiatria.

Allora che cosa è la psichiatria?

Perché ancora oggi è una domanda, è una domanda che ha una risposta più articolata per certi aspetti di quanto non fosse 40 anni fa però è ancora una domanda. Cioè questo uomo spostato dal manicomio al territorio perché il territorio vuole ancora cercare di circoscrivere di recludere in uno spazio altro, è ancora una volta una persona scomoda pur avendo fatto vari passi in avanti sulla ricerca scientifica, perché ancora questo uomo non è un oggetto che tu prendi e cataloghi una volta per tutte è una complessità che è un divenire è questo il problema, quindi tu devi avere degli strumenti che sono in divenire non degli strumenti che cercano di fissarlo, per fissarlo un momento ma per quel momento ma poi si deve divenire insieme con lui. È anche la tua tecnica che è importante che tu abbia deve essere duttile, deve modificarsi insieme con l’altro. Io credo che Freud sia stato questo: la psicoanalisi non è questo, questo è il probema, o certa psicoanalisi. È questo il problema importante. Diciamo che Gorizia è intervenuta su diverse cose, mettendo in crisi troppe cose.

La reazione dei colleghi? Della psichiatria delle altre zone d’Italia? Quale è stata?

Diciamo che ci sono stati pochi colleghi che hanno cominciato ad avvicinarsi, molti giovani.

Perché è più facile andare dietro al potere, più difficile creare delle situazioni alternative. Io dico sempre che il potere ce l’hai lo stesso se agisci in un certo modo, però è più facile in un certo modo che in un altro. È più facile seguire la carriera universitaria, ma anche andare nei servizi e fare quello che ci ha insegnato l’Università piuttosto che fare quello che si deve fare. Gli psichiatri che ho sono il risultato dell’università di oggi. Questa è la realtà ed è con questa realtà che noi ci dobbiamo confrontare, certo se mi date cartalibera qualcuno lo trovo in giro per l’Italia, però questo è il risultato anche della situazione di allora.

Quando è successo il caso di una persona che uscendo ha ucciso la moglie, non aspettavano altro per attaccare Gorizia.

Noi eravamo 4 gatti allora, entravamo al mattino alle 8 uscivamo alle 4 del mattino e alle 8 eravamo di nuovo lì. Però siamo stati bravi noi e Franco soprattutto a coinvolgere le persone e più che in Italia, all’estero. Diciamo pure che se in Italia c’è una grossa ignoranza su Gorizia, questa ignoranza non c’è all’estero. Se uno va in Francia, in Belgio, Spagna, Franco è molto conosciuto . Io non dico che gli psichiatri devono essere Basagliani io dico che non si può, come non si può non conoscere Freud, non si può non conoscere Franco Basaglia perché non è una persona comune, è stato un leader.

Siamo stati delle persone normalissime credo con una discreta intelligenza però non avevano il carisma di Franco, lui aveva una grossa capacità intanto di entrare in contatto con le persone, e di coinvolgerle. Aveva una grossa capacità di tradurre in pratica quello che pensava e di coinvolgere gli altri sulla pratica non solo sull’ideologia, io credo che il più bello scritto di Franco siano le Conferenze Basagliane in cui si vede chi era, si capisce tutto Franco nella capacità di prendere la platea ma di prenderla per qualcosa. Franco aveva la capacità di mettersi costantemente in discussione sul piano concreto come uno che viveva sul rapporto, nel rapporto, non era capace di rimanere fuori dal rapporto quindi questo lo traduceva in tutte le sue forme di vivere.

C’era una domanda che facevano ogni tanto a Franco: ma se lei non avesse fatto il direttore di ospedale psichiatrico, lo psichiatra, cosa avrebbe fatto? Lui rispondeva: per me anche se avessi fatto il venditore di noccioline per me sarebbe stato uguale. Avrei avuto il problema di come vendere le noccioline. Il problema è che nulla è mai un atto passivo ma deve essere sempre attivo, sempre domandarsi chi sono, cosa faccio, chi è l’altro? Cosa vede e cosa vuole l’altro.

Questa era la sua costante che gli ha permesso di passare dal mondo universitario al ruolo di direttore di un piccolo ospedale di provincia nella parte più sperduta d’Italia…..

Lui arriva nel 63 e va via nel 69. Arriva con l’ospedale psichiatrico come era come uno dei tanti ospedali ospedali psichiatrici di allora e nel 69 cosa lascia.

La vera rivoluzione è stata Gorizia, trieste è stata la conseguenza, tutti parlano di Trieste ma Trieste viene dopo draaticamente, senza Gorizia non ci poteva essere Trieste.



Tu hai attraversato la psichiatria di questi ultimi 40 anni e hai avuto la fortuna di vivere la rivoluzione dall’interno ma che cosa è rimasto nella psichiatria di oggi? Io ti dico sinceramente ho l’impressione che non sia rimasto quasi più niente.

Non è vero che non è rimasto niente. È la domanda che mi faccio tutti i igiorni. Molto probabilmente se ci fosse qualcosa di diverso io non sarei qui a 65 anni. Perché non c’è un altro giovane di 30 anni come me o meglio di me? Sarebbe meglio di me, io potrei dargli una mano, avrebbe più spirito, perché non ci deve essere ?

È vero che ci sono poche persone però è vero che lo spirito è passato, se non si costruiscono nuovi manicomi, se la Burani Procaccini ha così difficoltà ad essere messa in moto se io quando sono solo in mezzo a una serie i primari italiani alla prima presentazone della legge e quando io metto il dito sulla piaga e mi dice che sono ubriaco, è segno che qualcosa è passato, l’idea che il manicomio non ci debba più essere, l’idea che anche il territorio può essere il manicomio. La rivoluzione culturale che noi abbiamo fatto è ancora una rivoluzione culturale all’interno di uno specifico, che ha avuto anche dei riglessi più generali ma che non può essere accettata da questo mondo e che non può essere quindi diffusa da questo mondo.

Il mondo non è fatto di diversi è fatto di uguali e i diversi rimangono sempre fuori dalla porta quindi può essere un’idea vincente un’idea che bisogna che vada avanti.

Franco Basaglia è un intellettuale del nostro tempo che ha agito per cambiare il nostro mondo.

C’è stato una demonizzazione in Italia e molti suoi epigoni hanno distorto il suo pensiero in slogan che non hanno certamente aiutato la rivoluzione.

martedì 17 novembre 2009

Preoccupazioni riguardo il rapporto media/bambini/adulti

Introduzione
1. Non c'è discorso tra i moltissimi che circolano sul rapporto tra minori e media che sfugga alle insidie di due pregiudizi di fondo: quello dell'integrità psichica da salvaguardare e promuovere nei soggetti in crescita, e quello degli attentati che a tale integrità vengono dall'azione dei media.
Il problema più rilevante, su questo fronte, è a mio avviso rappresentato dal fatto che schemi del tipo di quelli indicati non vengono presentati come "ipotesi di lavoro" ma come "dati di fatto": di conseguenza, avviene assai raramente che si mettano in discussione idee su i bambini e sugli adolescenti o idee sulle macchine della conoscenza e dell'esperienza che, nell'attingere a luoghi comuni caratterizzati da pressapochismo e rigidità e nel rifiutare un approccio più sereno e pacato al complesso delle variabili in gioco, danno per risolta o risolvibile la questione; salvo poi dover riconoscere che ogni azione volta a regolamentare il rapporto minori-media, sia riducendo gli spazi di autonomia dei gestori dei media sia investendo in sede scolastica e familiare sullo sviluppo di competenze critiche delle quali dotare i giovani, affonda dentro una palude vischiosa di dubbi, controreazioni, sofismi interpretativi.
Già sarebbe un buon passo in avanti riconoscere che queste tematiche, pur essendo di portata pubblica e coinvolgendo quotidianamente l'universo degli adulti direttamente o indirettamente impegnati sul terreno educativo - o forse proprio per questo!-, meritano un supplemento di analisi e di problematizzazione.
E' in questa direzione che si sviluppano le considerazioni seguenti: facendo propria l'esigenza di misurarsi con un impegno di storicizzazione delle idee correnti di "minore", utilizzano l'universo dei media non come problema materiale ma come risorsa per la concettualizzazione dei nuovi spazi di identificazione dell'infanzia.


Gli effetti dei bambini di oggi sui media di oggi
2. L'idea sottesa all'impegno di ridefinizione precedentemente enunciato èche sia il caso di fuoriuscire dal ricatto esercitato dall'assunzione dischemi di concettualizzazione tanto condivisi quanto sprovvisti diautentico potere interpretativo ed esplicativo. E' il caso dello schemacostruito attorno all'esigenza di analizzare "gli effetti dei media ingenerale sui bambini in generale". Viene da chiedersi, ogni volta che informe più o meno ingenue viene proposta una simile ottica: quali sono imedia di cui si discute, e, soprattutto, a quale bambino vien fattoriferimento? Già rispondere onestamente a questi interrogativipregiudicherebbe l'accettazione degli esiti ai quali generalmente conducel'adozione dello schema.
Ci sarebbe invece da indagare il tipo di mentalità (per molti aspetti"infantile", come vedremo) promossa dalle macchine, adottando dunque unoschema per certi versi contrario, in quanto orientato a documentare "glieffetti dei bambini di oggi sui media di oggi".
E ci si troverebbe allora a misurarsi non tanto con i testi di unatradizione scientifica coerente con scenari assai diversi da quelloattuale, quanto con i contesti materiali dentro i quali dar corpo ariflessioni antropologiche e psicologiche più vicine al presente, ed ancheindicazioni per un'azione pedagogica contemporanea all'età storica cheadulti e bambini vivono: contesti di vita che sono appunto storici,scaturiscono da trasformazioni non superficiali nei comportamentiindividuali e collettivi e nei modi di rappresentarsi il mondo, e che peressere colti e valorizzati nel loro portato filosofico richiedono modalitàoriginali di lettura e d'interpretazione.
In questo quadro il ruolo assunto dai media non coinciderebbe con lasemplice "trasmissione" di conoscenze altrimenti elaborate, ma avrebbe ache fare con la promozione di una forma originale di conoscenza,irriducibile a quelle note e in buona parte consacrate dall'articolazioneche i saperi sono andati assumendo nella cosiddetta civiltà della stampa.

2.1. Nei confronti dei problemi filosofici (quello che sto sollevando qui èin primo luogo un problema filosofico) sono possibili, e di fatto vengonopraticati, due approcci: quello di chi intende affrontarli e portarli asoluzione come se fossero dei dilemmi, e a questo propoposito usa degliattrezzi che considera dotati di solidità, e quello di chi si propone diindagare i contesti entro i quali tali problemi si sono sviluppati, cioè lecondizioni che li hanno resi possibili (Sparti, p. 14).
Relativamente alnostro tema e alla centralità assunta dallo schema degli "effetti dei mediasui bambini": in un caso, il primo, si tratterà di attenuare quella che siconsidera la parte negativa di tali effetti (il dibattito sullaregolamentazione delle emissioni televisive e sul libero accesso a Internetsi inscrive qui); nel secondo caso ci si chiederà preliminarmente diindagare attorno alla nuova domanda di conoscenza ed esperienza (anche daparte dei soggetti infantili) di cui i media sono espressione econseguenza.

Qui faccio mia questa diversa ottica (vedi punti 5.1 e 6.1).
Non perché sia migliore dell'altra, ma perché evita l'ingabbiamento dentrouna cornice culturale data, e pone in discussione proprio quella stessacornice. Nel caso che sto trattando, essa non accetta la presunta soliditàdello schema degli effetti, né dà per sicure idee sui media e sui bambiniche invece richiederebbero un supplemento di analisi (per contattarediversi paradigmi di identificazione del bambino si vada al punto 3.1).
Relativamente all'opportunità di dotarsi di paradigmi di interpretazionedei media meno ingenui di quelli correnti, mi corre l'obbligo diesplicitare i quadri di analisi scientifica ai quali faccio direttoriferimento: si tratta, per un verso, dei contributi classici dellacosiddetta "scuola di Toronto" (in particolare, Ong e Havelock) e, perl'altro, delle prospettive aperte da alcuni "liberi pensatori" che,sfidando le imperanti forme di perbenismo mediale, dedicano impegno einvestono spregiudicatezza nel contattare e concettualizzare il grosso nododell'intelligenza tecnologica (da Lèvy a Papert, dalla Turkle adAbruzzese).

Contesto storico attuale
3. E' scontato riconoscere che nella determinazione del contesto storicoattuale, entro il quale il bambino acquisisce identità e configurazionerappresentativa, non operano solo gli elementi della nuova epistemologiapromossa dai media, ma anche altri fattori, che sarebbe opportuno prenderein considerazione: fattori sociali, culturali, demografici.
Qui intendo far cenno solo a questi ultimi, chiamando in causa i problemiposti (e mai sufficientemente indagati) dal rapidissimo affermarsi, neipaesi dell'occidente postindustriale, di nuove abitudini procreative. Anche limitando l'ottica al nostro paese è evidente che nel giro di pochegenerazioni si è passati da un regime demografico caratterizzato daun'elevata natalità ad uno caratterizzato da una natalità notevolmentebassa, addirittura inferiore - come è a tutti noto - alla soglia delrimpiazzo.
Non possiamo non chiederci quali siano le conseguenze ideologiche di questarivoluzione radicale nei comportamenti collettivi e come esse sianosupportate e ulteriormente articolate dalle conseguenze di un altrofenomeno ugualmente vistoso, vale a dire l'allungamento della vita media.
Non sarebbe sufficiente, allora, parlare di invecchiamento della società edi progressiva scomparsa dell'infanzia.
Occorrerà anche confrontarsi con latrasformazione dell'idea di bambino della quale tali processi (materiali eideologici) sono ad un tempo fattore di generazione ed effetto. Esserebambino dentro una società mediamente giovane (il secolo scorso) o matura (la prima metà di questo secolo) è cosa diversa dall'essere bambino dentrouna società mediamente anziana (questo fine di secolo).
La stessa identità di "minore" va oggi assumendo una configurazioneoriginale e complessa, anche in ordine allo stile e ai contenuti di unanuova progettualità pedagogica.
Per definire lo spazio di tale trasformazione sarà sufficiente riflettereattorno ad un cambiamento drastico sopravvenuto sul terreno delletecnologie e dei dispositivi (nel senso di Foucault) di "costruzione delsé" del bambino.
Il carico di aspettative di riuscita educativa di cui igenitori si fanno portatori tende oggi ad essere distribuito non più su unapluralità di soggetti-figli, come era in un contesto di natalità elevata,ma, per così dire, sul "pezzo unico". In questo contesto, così diverso daquello al quale fanno riferimento le idee purtuttavia correnti e condivisein fatto di psiche infantile, ogni figlio è inteso come (e subiscel'immagine di) figlio unico.
Associando questo elemento "ideologico",caratterizzato da forti aspettative pedagogiche, al contesto storico di unasocietà dominata dalle logiche della produttività e dell'efficienza, e alprocesso di nuclearizzazione della famiglia, si può avere una prima stima(e nello stesso individuare una prima spiegazione) del cumulo di elementiansiogeni che l'adulto prova, oggi, nei confronti del singolo bambino e cheinevitabilmente riversa su di lui (e sul suo ambiente primario diriferimento, caratterizzato dall'azione del media).
Il teatro contemporaneo della riproduzione individuale e sociale mette inscena, dunque, un bambino vincolato al paradigma dell'eccezionalità: unbambino eccezionale, insomma, che è tale (o inteso come tale) sia perché ladecisione di metterlo al mondo è vissuta come eccezione rispetto ad unascelta di non generazione che oggi si tende a considerare normale(esattamente come era normale, ieri, la scelta di generarlo, ed eccezionalequella contraria), sia perché l'investimento su questa scelta in un certosenso anomala chiede di essere garantito da un'alta, quasi eccezionale,probabilità di riuscita.
In altri termini, quell'unico pezzo, che tanto è costato, sul pianopsicologico, a chi l'ha realizzato, dev'essere un "pezzo buono", appagantee ripagante.
Di qui la quantità e l'eterogeneità delle attese di realizzazione, tutte dilivello qualitativo elevato, che soprattutto i genitori ma sullo sfondoanche i parenti e gli adulti pedagogicamente impegnati (dagli amici agliinsegnanti) riversano su quel pezzo unico. Di qui, ancora, l'isolamentomateriale e psicologico che lo stesso bambino e i suoi custodi vivonodirettamente sulla loro pelle, isolamento che riflette un atteggiamentocollettivo caratterizzato da un notevole carico di preoccupazione neiconfronti dell'infanzia. Di qui, anche, l'aggressività esercitata neiconfronti di quanto (i media soprattutto) mette in discussione una simileprospettiva d'azione.

3.1 Come sosteneva in tempi non sospetti Ariés, la detronizzazione delbambino è un catalizzatore corposo e denso della fase storica che stiamovivendo: esso si inscrive nella trasformazione profonda dei regimiistintuali e delle pratiche educative, e dà alimento a rappresentazionisegnate da ideologie negative. "Dagli anni '60 in poi la riduzionedemografica non risponde più alle medesime motivazioni" della denatalitàdegli anni '30: quella muoveva dallo scopo di ottenere "una famigliafelice", questa non è più "child oriented".
"Questi indizi non significanoche si torni ad epoche di indifferenza. Un limite della sensibilità è statovarcato troppo di recente e troppo a fondo perché sia possibile unaregressione". Ma qualcosa, inevitabilmente, si è rotto. Corriamo il rischio"che nella società di domani il posto del bambino non sia più quello cheera nell'Ottocento: il re potrebbe venir detronizzato e il bambino nonconcentrare più su di sé, come è avvenuto per uno o due secoli, tuttol'amore e la speranza del mondo" (Ariés, 431-442).
L'ansia che la collettività esprime riguardo l'autorealizzazione e lariuscita del singolo bambino esprime la lacerante contraddizione tra questedue istanze di eccezionalità: quella statistica e quella qualitativa.

Il bambino "fa problema", oggi.

4. Sarebbe poco onesto negarlo: il bambino "fa problema", oggi.
E i mediariflettono questo sentire comune rinforzandolo attraverso il rilevo dato aletture del mondo infantile (dalla violenza alla pedofilia,dall'indifferenza dei genitori alla crisi della scuola) che, per quantopoggino sulla denuncia di elementi di drammatica negatività presenti nelcontesto entro cui il singolo cresce, finiscono con il proiettarsi sullasua stessa identità: sia indirettamente (l'adulto sente il bambino comealieno) sia direttamente (il bambino si sente alieno a se stesso).
Troppo negativo il quadro tracciato fin qui?
Può anche essere. Ma àdifficile che, immergendosi dentro le forme della cultura mondana, in fattodi pedagogia praticata e problematizzata, si sfugga ad un'atmosfera dentrola quale i temi della vita sono fortemente intrecciati con quelli dellutto; e, in particolare, non si provi disagio per il conflitto tra questaideologia per molto aspetti negativa e ideologie di stampo contrario,basate su rappresentazioni idealizzanti, come quelle fornite da tanta partedella psicologia e della pedagogia ufficiali.
A questo punto intendo fare entrare in campo l'ideologia dei media: nonquella che, secondo una banale accezione contenutistica, li vede e li faagire come specchio e catalizzatore delle preoccupazioni collettiveriguardo alla crescita del bambino, ma quella, più profonda, e ancora dasviluppare compiutamente - anche in sede scientifica -, che ha a che farecon la qualità nuova dei linguaggi attivati dai mezzi, quindi con la formasemiotica che è costituivamente inscritta nel loro agire.Anche su questo versante, l'atteggiamento corrente è caratterizzato daaccenti di forte preoccupazione.

4.1 Nel suo più recente romanzo (pubblicato sotto lo pseudonimo RichardBachman) Stephen King, grande "metteur en scene" degli incubi collettividel presente, personizza il male - meglio, l'ignoto presente dentro di noie che intendiamo come male - nella figura di un bambino autistico, chiusoad ogni rapporto con l'adulto quanto aperto ad una comunicazione vitale coni personaggi di un serial tv e la loro concretizzazione in forma di pupazzie giocattoli.
Pupazzi e giocattoli che egli chiama sulla terra peresercitare la sua e la loro "vedetta".
Come non cogliere in questa tragicascena lo specchio delle nostre ansie riguardo la parte opaca, nondominabile, del bambino (vedi il punto 3.1) e il sostegno che essa ricevedall'azione dei media (vedi il punto 5.1)?

L'idea di infanzia ereditata dalla tradizione culturale

5. L'idea di infanzia ereditata dalla tradizione culturale e in buona partescientifica è, per così dire, "letteraria", trova cioè il suo ambito diconcettualizzazione e legittimazione dentro ad uno spazio sociale e unordine semiotico dominati dal carattere di esclusività riconosciuto allalingua scritta: esclusività duplice, sia perché all'alfabetismo siriconosce la prerogativa di essere il medium per eccellenza, per moltiaspetti l'unico medium cui affidare la riproduzione dei saperi e deicomportamenti, sia perché esso agisce isolando i suoi utenti in fasce dietà, di interessi, di identità.
In altri termini, la sua stessadesignazione di "essere che non parla" fa del bambino un individuomanchevole, incompiuto, il cui destino di crescita e completamento èfortemente segnato dall'alfabetismo.
Una volta assicurato il possesso di untale strumento, materiale e spirituale, la sua identità di bambino (dentrolo scenario tradizionale, è il caso di ripeterlo) smette di essere"negativa", carente, ed egli entra a pieno titolo nello scenario dicomunicazione e di dialogo con il mondo.
Il bambino che legge e scrive è unbambino compiuto, che non trova più ostacoli sia nel rapportarsi al mondo eagli altri, sia nell'autorappresentarsi come essere innocente (si pensi, aquesto proposito, al ruolo "fondante" che famiglia e scuola attribuisconoalla lettura, da parte del bambino in via di compimento, di testi letterariche hanno come protagonista l'infanzia).

5.1 La tesi secondo cui è l'alfabetismo a creare l'infanzia può certamenteessere accusata di superficialismo e di rozzezza deterministica.
Ma èdifficile negare che nell'età precedente l'avvento della stampa i bambinifossero considerati meno diversi dagli adulti e che nell'età presente,anche in forza dell'oralità di ritorno di media come la televisione e ilcomputer, questa distinzione abbia perso molti dei suoi tratti: il bambinoè coinvolto direttamente, dalla tv, in quella parte del mondo che prima gliera preclusa o presentata in termini edulcorati dalla stampa.
Il libro,insomma, isola il bambino dal mondo adulto in una maniera inconcepibile peruna cultura orale, pre o post scritturale.
Ovviamente non è il libro di persè che determina l'età infantile e quella adulta, ma le maggioripossibilità proprie dell'alfabetismo di tenere nettamente separati isistemi informativi adulti e quelli infantili.
La tv, permettendo aibambini di accedere ad uno spazio aperto, non più diviso (se non in modomolto blando) per "fasce d'età", fa saltare l'idea di innocenza e mette incrisi l'idea di una progressione prestabilita dei contenuti e delle formedell'esperienza individuale.
Tv e computer hanno radicalmente compromessola gerarchia delle informazioni e dei modelli di apprendimento storicamentecostituita dall'alfabetizzazione e dal suo contesto di massimalegittimazione, cioè la scuola (Meyrowitz, cap. XII).

Provo a dirlo con una formula provocatoria.

6. Lo schema che garantisce all'alfabetismo il compito di fissare egovernare il sistema delle età e di conseguenza il filtraggio delleesperienze e delle conoscenze entra in crisi non tanto con l'avvento deimedia (che comunque usano altri codici, accanto o in alternativa a quelloscritto) quanto con il fatto che essi, occupando e plasmandogli spazi dellerappresentazioni collettive secondo modalità aperte - non più riservate -,trovano un interlocutore privilegiato nel bambino, più propriamente nellasua componente "analfabetica": non intesa come carenza, ma come dotazionecostitutiva del suo essere "soggetto simbolico".
Il rapporto di amore che ogni soggetto in crescita, fin dal suo primoaffacciarsi sul mondo, vive nei confronti di strumenti come il telefono, ilregistratore audio, la radio, la televisione, il videoregistratore, latelecamera, fino ad arrivare al computer trova qui la sua origine: nelfatto che l'accesso a tali mezzi e il loro uso prescinde dal (anzi talvoltatrova ostacolo nel) possesso formale della strumentazione alfabetica.
Letecnologie della riproduzione audio e quelle audiovisive ma per certiaspetti anche le tecnologie multimediali investono molto, e spesso in modoesclusivo, su codici diversi da quelli dell'alfabetismo. Ma quel che è piùimportante e dirimente, per il ragionamento proposto qui, è che esse sifanno garanti di forme di esperienza e di conoscenza assai diverse rispettoa quelle codificate (e giudicate come esclusive) dalla scrittura (e dallatradizionale vocazione imperialistica che essa esercita negli spaziscolastici).
Provo a dirlo con una formula provocatoria. Il contributo più rilevante chele macchine cognitive offrono al cambiamento dei regimi collettividell'esperienza e della conoscenza non sta nella diffusione massiccia eintergenerazionale di quadri di sapere, quanto nella messa in discussionedi una concezione "macchinistica" (o meccanicistica) del sapere stesso.
E' il caso che mi spieghi. La stampa e la cultura testuale di cui si faportatrice ci hanno abituato a considerare ogni ambito di sapere come unospazio oggettivato o oggettivabile in un discorso scritto, o testo, a suavolta scomponibile nei suoi elementi costitutivi.
Mettere un individuonelle condizioni di acquisire questo ambito equivale a consentirgli discriverselo dentro, e ciò avviene perlopiù attraverso una pianificazionedelle attività di lettura, dalle porzioni più semplici a quelle piùcomplesse che compongono il sapere-testo (vale a dire il sapere inteso cometesto).
Così funziona la scuola, e in buona parte funzionano tutte le attività diinsegnamento formale: promuovendo un adeguamento meccanico ad un testo, chefunge da mappa e da ambiente concreto per la pianificazione-realizzazionedegli itinerari didattici e successivamente da garanzia per l'eserciziodelle eventuali attività di verifica ("capire se l'allievo ha capito"significa, in questo spazio, sottoporlo ad una prova di riconoscimento o diriproduzione testuale).
Dentro i media non albergano gli attributi formali della conoscenza e dellacomunicazione testuale. Al posto di una forma di sapere caratterizzata dachiusura, sistematicità, verticalità (nel senso di approfondimento)troviamo un sapere centrato sui principi dell'apertura, della reticolarità,dell'orizzontalità (nel senso di estensione): non meccanico bensì magmaticoe fluido, non analitico ma connettivo e quindi integrante, non totalmenteoggettivo o soggettivo ma contemporaneamente contaminato da istanze disoggettivazione e istanze di oggettivazione, non distaccante maproiettante.
Ciò che intendo sostenere qui è che un tale pensiero si presenta, da unpunto di vista formale, come assai vicino alla componente non alfabetica(non ancora alfabetizzata) del pensiero del bambino: quella che viene agitadal potere attrattivo, coinvolgente, immersivo del suono e dell'immagine inmovimento, quella che l'adulto sente come insidia e si propone di annullareattraverso l'imposizione sovente formalistica e violenta dell'alfabetismo.
Contattati in questo modo, i media si configurano comeespressione-legittimazione di un sapere ad un tempo primordiale epost-alfabetico (qualcuno direbbe post-moderno), pre-adulto e post-adulto(dove l'attributo "adulto" concide con il possesso pieno e consapevoledella strumentazione alfabetica), astratto ma non totalmente distanziante(in quanto garantito dal circolo immersione-astrazione-immersione).

6.1 Registriamo qui l'insorgere oggettivo di una soggettività che è alfondo di noi stessi e nello stesso tempo al di fuori di noi: unasoggettività non totalmente in-scritta nei dispositivi istituzionali delcontrollo e della persuasione (dalla famiglia alla scuola), ma affidataalle forme del desiderio veicolate dal mercato e dai media (Abruzzese); unasoggettività che trova specchio e rifrazioni molteplici nel rapporto diprofonda sintonia e materiale complicità che l'infanzia odierna instauracon le macchine della multimedialità (Maragliano). Ma assistiamo anche allanascita e alla diffusione (per vie il più delle volte nuove) di unamentalità ipertestuale che mette in movimento i presupposti dello schemaclassico di intendere l'esperienza, ogni tipo di esperienza, come "testo"(Bolter, Landow).

Torniamo al bambino delpresente

7. Torniamo dunque, con ottiche nuove, a questo nostro bambino delpresente, che ama i media, ama attornarsene, dialogarci, proiettarcisi,farne patrimonio di scambio con i suoi simili; e all'adulto che regisce alfenomeno con un carico esorbitante di preoccupazioni, la parte esplicita diqueste derivando dal desiderio di preservare l'infanzia (e l'idea di essadi un soggetto innocente) dai pericoli di inquinamento e disintegrazione, ela parte implicita venendo dal timore di dover mettere in discussione quelsistema di valori, di conoscenze e di pratiche istituzionali che dannolegittimità alla sua identità (di fatto, in profonda crisi) di adulto.
E' dentro a questo campo di nuove tensioni che dovrebbe maturare sia unanuova concezione dell'infanzia, più attenta al contesto storico attuale,sia la possibilità di vedervi riflessa quella parte infantile che funge dacomponente irriducibile (anche se materialmente rimossa) dell'identitàstessa dell'adulto: la componente che dovrebbe rendere il non bambino,comunque, un individuo curioso del mondo, proiettato verso il nuovo,disponibile al dialogo, dotato di un'intelligenza compassionevole e di unirrifrenabile gusto per il gioco.

7.1 "...La nevrosi non rinnega la realtà e semplicemente di essa non vuolesapere nulla; la psicosi invece rinnega la realtà e cerca di rimpiazzarla.Chiamiamo normale o 'sano' un comportamento che unisca determinati trattidi entrambe le reazioni, che al pari delle nevrosi non rinneghi la realtà,e che però poi, come la psicosi, cerchi di modificarla" (Freud).
Il sensodelle presenti note sta nell'invito ad assumere un'ottica "sana" neiconfronti dei media, sottolineandone il contributo ad un processocollettivo di normalizzazione del reale, ed evitando ogni pre-giudizio(questo sì nevrotico o psicotico) che attribuisca ad essi un ruolo diproduzione-riproduzione di reazioni nevrotiche o psicotiche.



Bibliografia

1.Abruzzese A., (1996), Analfabeti di tutto il mondo uniamoci, Costa & Nolan,Genova
2.Ariés P., (1979), Infanzia, in Enciclopedia, vol. 7, Einaudi, Torino
3.Bolter J. D., (1991), Writing Space. The Computer, Hypertext and theHistory of Writing, LEA, Hillsdale (N. J.) (trad. it. Lo spazio delloscrivere. Computer, ipertesti e storia della scrittura, Vita e Pensiero,Milano, 1993)
4.Bachman R., (1996), The Regulators (trad. it. I vendicatori, Sperling &Kupfer, Milano, 1997)
5.Freud S., (1924), La perdita di realtà nella nevrosi e nella psicosi,O.S.F., 10
6.Havelock E. A., (1986), The Muse Learns to Write. Reflections on Oralityand Literacy from Antiquity to the Present, Yale University Press, NewHaven and London (trad. it. La Musa impara a scrivere. Riflessionisull'oralità e l'alfabetismo dall'antichità al giorno d'oggi, Laterza,Bari, 1987)
7.Landow G. P., (1992), Hypertext. The Convergence of Contemporary CriticalTheory and Technology, The Johns Hopkins University Press, Baltimore (trad.it. Ipertesto. Il futuro della scrittura, Baskerville, Bologna, 1993)
8.Lévy P., (1995), Qu'est ce que le virtuel?, La Découverte, Paris (trad. it.
9.Il virtuale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997)
10.Maragliano R., (1996), Esseri multimediali. Immagini del bambino di finemillennio, La Nuova Italia, Firenze
11.Meyrowitz J., (1985), No Sense of Place. The Impact of Electronic Media onSocial Behavior, Oxford University Press, New York (trad. it. Oltre ilsenso del luogo. Come i media elettronici influenzano il comportamentosociale, Baskerville, Bologna, 1995)
12.Ong J. W., (1982), Orality and Literacy. The Technologizing of the World,Methuen, London and New York (trad. it. Oralità e scrittura. Le tecnologiedella parola, Il Mulino, Bologna, 1986)
13.Papert S., (1993), The Children's Machine. Rethinking School in the Age ofthe Computer, HarperCollins Publishers, New York (trad. it. I bambini e ilcomputer. Nuove idee per i nuovi strumenti dell'educazione, Rizzoli,Milano, 1994)
14.Sparti D., (1996), Soggetti al tempo, Identità personale tra analisifilosofica e costruzione sociale, Feltrinelli, Milano
15.Turkle S., (1996), Life on the Screen (trad. it. La vita sullo schermo.Nuove identità e relazioni sociali nell'epoca di Internet, Apogeo, Milano,1997)

martedì 19 maggio 2009

CURRICULUM

Profilo

DIRIGENTE MEDICO ASL BARI - Nato a Gravina in Puglia il 1.giugno.1951 Risiede nel Comune di Noci

Esperienza
  • Dirigente Responsabile Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile - Putignano
  • Dirigente Responsabile Riabilitazione Distretto Sanitario di Gioia del Colle ASL Ba 5
  • Responsabile Modulo di Psichiatria dell’Infanzia e dell’adolescenza
  • Rappresentante associazione disabili psichici e relazionali nelle commissioni invalidi civili di putignano-conversano e gioia del colle
  • Direttore Istituto Riabilitazione Osmarm - Laterza
Incarico ricoperto dal 1979 al 1984
  • Docente di anatomia e fisiologia del sistema nervoso
Incarico ricoperto presso la Scuola di Formazione Terapisti della Riabilitazione di Putignano dal 1979 al 1995
  • Docente di Fisiopatologia del sistema nervoso
Incarico ricoperto presso la Scuola di Formazione per Insognanti di Sstegno di Taranto dal 1981 al 1983

Istruzione
Laureato in Medicina e Chirurgia. Neurologo Psichiatra Neuropsichiatra Infantile Fisiatra Psicoterapeuta
Formazione in Psicoterapia Psicoanalitica ( Università di Napoli) in Psicoterapia Sistemico Relazionale (istituto di Terapia Familiare di Roma) Master in Economia Sanitaria ( Universutà Tor Vergata di Roma)

Competenze
Particolarmente esperto in problematiche neurologiche e psichiatriche dell’età evolutiva

Pregresse Esperienze Politiche Sindacali
Candidato Consigliere Comune Putignano nelle liste dei DS
Responsabile CGIL Medici ASL BA 5
Candidato Consigliere Provinciale nel 2009 per l?Italia dei Valori